Sempre software libero per perfezionare la blockchain

Lo scorso marzo, sotto il titolo “Software libero per la blockchain”, ho raccontato come il software che fa funzionare la prima applicazione della blockchain, la piattaforma Bitcoin, sia open source, talmente open che nemmeno si conosce esattamente chi abbia cominciato a scriverlo.
Ho anche indicato come chiunque possa procurarsi questo software e lo possa caricare sul suo computer diventando così un nodo della rete blockchain.
Open il software, open la rete in questa prima applicazione della blockchain, che qualcuno ha ormai battezzato Blockchain 1.0.
Da alcuni mesi, usciti dalla fase delle sperimentazioni, possiamo affermare che funzioni la Blockchain 2.0.
L’evoluzione tra le due concezioni sta nel fatto che, mentre la Blockchain 1.0 è aperta a chiunque, in gergo unpermissioned ledger, la Blockchain 2.0 si presta al governo delle partecipazioni, in gergo permissioned ledger. E’ questa evoluzione che segna e segnerà l’estensione inimmaginabile delle applicazioni della tecnologia blockchain non solo ad applicazioni pubbliche, dove tutti sono in grado di vedere tutto e potenzialmente tutti possono autorizzare le transazioni (mining), ma anche ad applicazioni private, dove sia possibile stabilire chi possa autorizzare e chi possa e cosa possa vedere.
Ovviamente è la seconda concezione quella più adatta ad applicazioni nel mondo degli affari, quello che sicuramente è il più predisposto a cogliere l’innovazione e che maggiormente contribuirà allo sviluppo delle applicazioni blockchain, almeno nell’immediato.
Il passaggio dalla Blockchain 1.0 alla Blockchain 2.0 ha richiesto un immane sforzo per l’adeguamento del software: la gestione delle permission, infatti, non è uno scherzo.
Ed è qui che si è avuta la più grandiosa manifestazione della potenza dell’open source: la piattaforma che ha reso possibili le prime applicazioni Blockchain 2.0 è infatti la Hyperledger Fabric, il cui sviluppo è stato promosso da IBM all’interno della Linux Foundation.
Tra l’altro è stato un bel modo di festeggiare il compleanno ventennale dell’open source: questo è infatti nato nel 1998 con l’uscita del codice sorgente del browser Netscape Navigator.
La Linux Foundation nasce una dozzina di anni fa per favorire e sostenere una crescita ordinata di Linux sul mercato. I primi progetti furono il Linux Standard Base, l’Open Printing, Data Center Linux, Carrier Grade Linux e altri, tutti destinati ad una standardizzazione nel mondo Linux, il cui kernel veniva utilizzato in svariate distribuzioni, ed all’accelerazione dell’ingresso di Linux nel mondo enterprise.
La serietà di intenti e la filosofia open source che ispirava l’iniziativa attrassero immediatamente l’attenzione di grandi operatori come IBM e Oracle, che furono gli apripista di quella che è diventata l’attuale nutrita schiera di sostenitori della Linux Foundation (ormai ne fa parte la stessa Microsoft) e che furono i primi a capire che, almeno per realizzazioni di natura “infrastrutturale”, la via da seguire è quella della collaborazione: ciò che, in tema di software, si chiama open source.
Hyperledger Fabric, da alcuni definito consorzio di innovazione, è la prima grande realizzazione ispirata a questi concetti.
Ovviamente non siamo in presenza di un pacchetto direttamente installabile sul nostro computer, come avviene per il software Bitcoin. Siamo in presenza di una piattaforma su cui potrà lavorare lo specialista che chiameremo a costruire la nostra applicazione blockchain privata. Ma, ancora, lo specialista lavorerà con software libero: infatti la programmazione degli smart contract che magari la nostra applicazione dovrà gestire avverrà con il linguaggio Go, quello che Google ha regalato al mondo del software libero. Ma già si sta lavorando affinché sia possibile utilizzare anche il linguaggio Java, ormai altrettanto libero.
Potenza del software libero!

Poker di editor video

L’ultima volta che ho parlato di editor video in questo blog risale al settembre 2016. A quell’epoca, in un articolo intitolato “Kdenlive sempre meglio, ma solo per Linux”, commentavo il rilascio della innovativa versione 16.08.01 dello storico software libero Kdenlive, lamentando il fatto che ancora non fosse comparsa una versione per coloro che insistono ad usare il sistema operativo Windows, annunciando tuttavia che ci si stava lavorando.
Già allora esistevano altri editor video prodotti nel mondo del software libero ma, a torto o a ragione, ero convinto che Kdenlive fosse di gran lunga il migliore.
Oggi, verso la fine del 2018, mi accorgo che quest’anno sono state rilasciate le nuove versioni di ben quattro software liberi di editing video, che si tratta di versioni lavorando con le quali non si capisce che cosa si possa ancora migliorare e che tutti i quattro software sono disponibili per i tre più diffusi sistemi operativi Windows, Mac OS X e Linux.
Ai più anziani Avidemux e Kdenlive si sono aggiunti i relativamente più recenti Shotcut e OpenShot, tutti ormai a livello di perfezione, a formare un vero e proprio poker d’assi per dilettanti ma non disprezzabile per esigenze di esperti professionisti.
Per questi ultimi esiste comunque sempre il meno dilettantesco Cinelerra, il cui ultimo rilascio risale al 2017, ancora riservato ai soli sistemi Linux e Mac OS X: non lo considero nel poker in quanto il suo utilizzo è più da professionisti e il mio blog si rivolge ad un pubblico di dilettanti.
Mi accorgo che in rete esistono non pochi manuali, manualetti, tutorial e video-tutorial su tutti questi software, anche il lingua italiana, per cui il mio compito divulgativo potrebbe esaurirsi qui.
Dal momento, però, che la situazione è divenuta tale da mettere in dubbio la primazia tradizionalmente attribuibile a Kdenlive e si crea l’imbarazzo della scelta, per fornire elementi utili ad un giudizio consapevole ho ritenuto di riepilogare nel manualetto allegato alcuni aspetti che non riguardano tanto il funzionamento dei vari software quanto invece come i vari software si attagliano a quelle che possono essere le nostre finalità e le nostre attrezzature.
Come sempre il manualetto, in formato PDF, è liberamente scaricabile, stampabile e distribuibile.

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Software libero per sintesi e riconoscimento vocale

Macchine che parlano o che comprendono la voce umana hanno sempre esercitato un enorme fascino, fin da quando, sul finire degli anni cinquanta del secolo scorso, i primi robot sono comparsi con le loro voci metalliche nelle fiere e nelle esposizioni.
Tuttavia si può dire che fino all’inizio del nostro secolo si è sempre trattato di cose che poco avevano a che vedere con ciò che facciamo tutti i giorni. Nonostante ciò, la ricerca e la sperimentazione nel campo della sintesi e del riconoscimento vocale sono sempre state attive ed oggi, sia grazie alla quasi perfezione dei risultati tecnici raggiunti sia grazie all’utile applicabilità di questi risultati alle moderne apparecchiature, soprattutto quelle di ultima generazione nel mobile, praticamente tutti i giorni utilizziamo queste tecnologie.
Gli apparecchi telefonici installati sulle automobili e gli smartphone sono già dotati di tutto quanto serve perché ci venga letto un messaggio SMS o perché lo possiamo dettare.
Per non parlare del navigatore che abbiamo sull’automobile, che ci indica la strada a voce.
Tutto ciò non avviene per i personal computer o, quanto meno, sui personal computer, queste tecnologie non sono così automaticamente presenti e così facilmente accessibili.
Per chi voglia superare questo incomodo ho ritenuto utile catalogare quanto di meglio ci offre il software libero in questo campo nel manualetto allegato, liberamente scaricabile e distribuibile.

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Software libero per la blockchain

Forse non tutti sanno che la piattaforma su cui funziona la prima grande applicazione della tecnologia blockchain, cioè il sistema Bitcoin, è software libero.
Già dietro il nome del fantomatico creatore di questa tecnologia, Satoshi Nakamoto, molto probabilmente si cela una pluralità di persone. Fin dalla metà del 2010, comunque, cioè da quando è stata resa pubblica la prima versione del software e Nakamoto è sparito, il sorgente è open e al progetto lavorano più persone, attualmente almeno un centinaio nella comunità Github, dove dal 5 giugno del 2015 si è collocato lo sviluppo della piattaforma Bitcoin.
Per chiunque volesse mettere il naso per vedere come è fatta questa tecnologia dal punto di vista informatico, questo è l’indirizzo: https://github.com/bitcoin/bitcoin. Vi si trova il sorgente.
Per chi, invece, fosse interessato a caricare il software sul proprio computer, software che si chiama Bitcoin Core, l’indirizzo è: https://bitcoin.org/it/scarica oppure, in sede più aggiornata, https://bitcoincore.org/en/download/. Il software è disponibile per Linux, Windows e OS X. La versione corrente è la 0.15.1, rilasciata l’11 novembre del 2017.
Il computer con installato questo software diventa un nodo (full node) della rete blockchain, cioè diventa uno dei tanti computer dove è presente il database della blockchain e diventa uno dei computer che partecipa alla validazione delle transazioni ed alla loro trasmissione ad altri nodi.
Basta un normale computer con almeno 2 GB di RAM in quanto, a partire dalla versione 0.13, Bitcoin Core non ha più abilitata la funzione per il mining (costruzione di nuovi blocchi), per la quale necessiterebbero potenze di calcolo non alla portata di computer casalinghi. Ciò che importa è avere un collegamento Internet superveloce e spazio sufficiente per ospitare il database, attualmente quasi 200 GB, destinato, dati i ritmi di espansione, ad assorbire ulteriormente tra i 5 e i 10 GB al mese. Il tutto può essere ospitato su disco esterno collegato via USB.
Ovviamente è necessario rendere disponibile il computer per la rete almeno sei ore al giorno, sapendo che la piena collaborazione richiederebbe 24 ore su 24 (la disponibilità del computer per la blockchain consente di utilizzare altrimenti il computer stesso per i propri lavori).
All’indirizzo http://btc-news.it/utility/nodo bitcoin.html troviamo una descrizione di cosa significhi essere un full node della blockchain con un fervorino tendente al reclutamento (la blockchain senza nodi non esisterebbe).
Nella sostanza lo svantaggio sta nel rendere disponibile il computer, con relativo costo di energia elettrica, senza alcun compenso. I compensi li percepisce solo il miner e si sono ormai ridotti al lumicino in forza della progressione geometrica con cui diminuiscono. Cosa assolutamente non proporzionata ai costi che comporta allestire e mantenere la capacità elaborativa richiesta dall’attività di mining (per fortuna ci sono i cinesi).
C’è però il grande vantaggio di poter gestire in proprio il bitcoin wallet senza delegarne la gestione ad altri, affidando loro le nostre credenziali, come avviene quando apriamo il bitcoin wallet su uno degli ormai numerosi intermediari di criptomonete: sul piano della sicurezza si tratta di una cosa impagabile.
A livello di hackeraggio brutto ci sarebbe anche un modo per avere il vantaggio senza lo svantaggio, ma tutto ciò è diseducativo. Chi voglia essere diseducato guardi https://www.youtube.com/watch?v=7X0KgtpvSGA.
Prescindendo comunque dall’applicazione Bitcoin, che, nonostante tutto, possiamo ancora considerare qualche cosa di sperimentale, ciò che conta è che la tecnologia blockchain, con la valanga di novità che potrà portare nei più svariati campi applicativi, sia appannaggio del software libero.
Mancherebbe altro! Una tecnologia destinata alla democratizzazione della conoscenza e della custodia dei dati non sarebbe certamente coerente fosse fatta funzionare da software proprietario.

digiKam, il massimo

Il 18 gennaio scorso è stata rilasciata la versione 5.8.0 di digiKam.
Si tratta di un software open source di gestione di raccolte fotografiche e di elaborazione digitale delle immagini, il cui primo rilascio risale al 2002.
Anche grazie ai più recenti ravvicinati rilasci (uno ogni tre/quattro mesi) sta praticamente raggiungendo la perfezione.
Purtroppo, quando ho parlato di strumenti di questa specie, nel maggio 2015 (vedere, in questo blog, l’articolo “Software libero per utilizzare file digitali” e il relativo allegato “utilizzo_file_digitali.pdf”), ho presentato due programmi per la gestione di file fotografici: il semplicissimo KPhotoAlbum, non dotato di funzioni di foto-ritocco e Fotoxx, dotato di funzioni di foto-ritocco. Quest’ultimo, a quel tempo, da me ritenuto migliore della versione 4 di digiKam allora disponibile.
Ma è proprio nel 2015 che è partito il riscatto di digiKam e, dopo il rilascio di ben sette versioni beta, il 3 luglio 2016 è stata data alla luce la versione 5.0.0, dove la perfezione ha cominciato a prendere corpo.
Tra l’altro, a differenza dei due software citati prima, che sono disponibili solo per Linux, digiKam è ora disponibile anche per Windows e Mac OS X.
Dal novembre 2016, con la versione 5.3.0, per Linux viene rilasciato anche come AppImage (cioè come pacchetto eseguibile senza essere installato).
L’ultimo manuale di digiKam, disponibile anche in italiano, è fermo alla versione 5.2: anche se con alcune parti non ancora realizzate, è molto particolareggiato e può risultare dispersivo per chi cerchi semplicemente un primo approccio con questo interessante software.
Ho pensato allora di fare cosa utile proponendo il manualetto allegato, in formato PDF, liberamente consultabile, scaricabile e distribuibile.

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Software libero per il PDF

Nei miei due recenti articoli su come possiamo scrivere e pubblicare noi stessi ebook (“Scrivi e pubblica i tuoi ebook” del settembre 2017) o veri e propri libri stampati su carta (“Scrivi e pubblica veri libri” del novembre 2017) ho illustrato come il formato PDF si presti egregiamente a questi fini, pur essendo ormai affiancato e, in certi casi, giustamente soppiantato da più flessibili altri formati, come il diffusissimo ePub, meglio fruibili sui ridotti schermi di smartphone e piccoli tablet.
Nei due articoli ho anche presentato due formidabili strumenti del mondo del software libero con i quali possiamo produrre file PDF: LibreOffice e LyX.
Per un più completo panorama su cosa si possa fare con il PDF e con il software libero ho ora ritenuto utile proporre la panoramica che si trova nell’allegato manualetto, in formato PDF, che può essere liberamente scaricato, stampato e diffuso.

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Scrivi e pubblica veri libri

Nell’articolo “Scrivi e pubblica i tuoi ebook” dello scorso settembre e nel relativo allegato “epub” ho illustrato come si possano produrre facilmente ebook in un perfetto formato ePub con LibreOffice per pubblicarli e venderli attraverso alcune organizzazioni: tutto senza investire un euro.
Ho anche ricordato che, oltre al formato ePub, esiste il formato PDF, poco adatto agli apparecchi lettori di ebook e a schermi di piccole dimensioni ma adattissimo per gli schermi dai 10 pollici in su di tablet, notebook e personal computer: ideale, soprattutto, per stampare la nostra produzione su carta.
La produzione dei nostri lavori nel formato PDF è possibile utilizzando lo stesso strumento LibreOffice esattamente nello stesso modo con cui lo utilizziamo per produrre nel formato ePub.
Se però vogliamo che il nostro prodotto abbia la forma classica di un libro secondo i dettami stilistici dell’editoria cartacea dobbiamo ricorrere ad un altro potente strumento che ci mette a disposizione il mondo del software libero: il motore di tipocomposizione Tex.
Nel tutorial allegato in formato PDF, liberamente scaricabile, stampabile e distribuibile, illustro questo strumento e un modo per utilizzarlo con relativa facilità.

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Scrivi e pubblica i tuoi ebooks.

In questo blog, negli allegati agli articoli “Software libero per scrivere” del febbraio 2015 e “Software libero per ebook” del maggio 2015, entrambi archiviati nella categoria Software libero, illustravo come, utilizzando LibreOffice arricchito da alcune estensioni, sia possibile produrre documenti di contenuto complesso, anche nel formato .epub.
Le stesse indicazioni sono contenute nei Capitoli 1 e 6 del manuale Vittorio Albertoni – Computer tuttofare con programmi liberi e gratuiti, reperibile in formato PDF in tutte le librerie on-line e in formato cartaceo su Amazon.
A quei tempi mi riferivo alla versione 4 di LibreOffice che produceva in formato .epub con uno strumento, writer2epub, dal funzionamento non sempre di tutta affidabilità per documenti non di solo testo, spesso generando lavori che non superavano il test per la diffusione in libreria.
Con le più recenti versioni di LibreOffice, ormai giunte alla 6, e con le nuove estensioni resesi disponibili grazie agli sviluppi del pacchetto writer2latex si è raggiunta la perfezione, nel senso che diventa possibile esportare il documento, per complicato che sia dalla presenza di formule matematiche, tabelle, grafici, illustrazioni, pentagrammi musicali e formule chimiche in un perfetto formato .epub a prova di qualsiasi test.
Navigando in rete trovo vari dubbi e discussioni su come sia possibile produrre ebook complessi, cioè non di solo testo, nel formato .epub senza essere specialisti del linguaggio html, ricorrendo a tex (soprattutto se si è matematici) ed a convertitori (da pandoc a Calibre) con constatazione di quanto siano sempre deludenti i risultati.
Non trovo nessuno che indica la soluzione più semplice, almeno al momento attuale, e allora la richiamo io: LibreOffice arricchita da alcune estensioni.
Per non parlare della facilità con cui, una volta scritto il nostro ebook, possiamo pubblicarlo e metterlo in vendita senza spendere un euro attraverso le tante librerie online che troviamo sul web.
Nel tutorial allegato in formato PDF, liberamente scaricabile, stampabile e distribuibile, fornisco le necessarie indicazioni.

epub

ffDiaporama S.O.S.

Ritengo che ffDiaporama sia il miglior software esistente per creare presentazioni di fotografie.
Partendo da fotografie, volendo anche da videoclip o mixando entrambe le cose, possiamo creare filmati di livello professionale, fruibili come tali o trasferibili su DVD, completi di commento audio e/o di accompagnamento musicale.
Si tratta di un software libero, disponibile per Linux e per Windows, che troviamo – chissà per quanto tempo ancora – all’indirizzo http://ffdiaporama.tuxfamily.org/?lang=it.
Dico chissà per quanto tempo ancora perché non c’è più nessuno che cura lo sviluppo di questo bellissimo software.
L’ultima versione stabile è la 2.1, rilasciata il 9 febbraio 2014. Esistono tracce di lavori di sviluppo per la versione 2.2 fino a luglio 2014 e poi il progetto è stato abbandonato, pare per subentrata impossibilità di continuare a dedicarvisi da parte del team leader, primo estensore del software.
Cose che succedono nel mondo del software libero.
Però è un vero peccato, perché, purtroppo, con le versioni più recenti dei sistemi operativi la 2.1 non funziona più bene o addirittura non si riesce nemmeno ad installare. Tanto è vero che ffDiaporama non si trova più nei repository delle distro di più recente rilascio.
Per l’esattezza, l’ultima versione stabile 2.1 di ffDiaporama funziona bene sulle versioni Ubuntu dalla 12.04 alla 14.04, con relative derivate, comprese le versioni Mint da 13 a 17 e KXStudio, sulle versioni 19 e 20 di Fedora, sulle versioni 12 e 13 di OpenSuse. Per Windows la 2.1 va bene da Vista a 8.1. Su Windows XP/SP3, per chi ancora l’avesse, occorre utilizzare la versione 1.6, del 2013, di ffDiaporama.
Sul sito all’indirizzo sopra citato si trovano comunque tutti i riferimenti del caso, con possibilità di scaricare il software.
Trattandosi di un  software veramente prezioso consiglio a tutti di impossessarsene fin che si è in tempo. Nulla vieta che anche chi usa sistemi operativi di ultima generazione possa tenersi in un angolino del disco fisso o su una chiavetta USB una versione di Ubuntu 14.04 su cui caricarlo per averlo a disposizione.
Con l’auspicio che qualche volonteroso riprenda a far lavorare il team di sviluppo in modo da poter continuare ad avere ffDiaporama sulle ultime versioni dei sistemi operativi.
Nell’allegato manualetto in formato PDF, liberamente scaricabile e distribuibile, illustro cosa sia possibile fare con ffDiaporama.

ffDiaporama

Quale Linux

Nell’agosto del 1991 lo studente universitario finlandese Linus Torvalds affidò alla rete il primo kernel di quello che sarebbe diventato il sistema operativo Linux (dal nome di Torvalds combinato con Minix, il sistema unix-like che lo ispirò nella sua impresa). E’ bastato un anno perché questa cosa, nata per divertimento, diventasse una cosa seria: già nel settembre del 1992, infatti, un giovane ingegnere informatico con tre studenti universitari di matematica fondarono a Norimberga la prima struttura organizzata per fare che ciò avvenisse, la S.u.S.E. (Software und System Entwicklung). Nel 1993 il successo fu decretato con la nascita della Red Hat Inc. a Raleigh, nel Nord Carolina e con il lancio, da parte del compianto Ian Murdoch, del progetto Debian (combinata del nome di Murdoch, Ian, con le prime lettere di quello della fidanzata Debra): il progetto Debian fu ed è ancora quello più aderente alla filosofia del software libero.
Qualche anno dopo, nel 1998, nacque il progetto Mandrake Linux con l’intento di rendere di più semplice utilizzo il sistema Linux distribuito da Red Hat; dopo attriti con chi deteneva i diritti d’autore dell’omonimo Mandrake dei fumetti, Mandrake Linux divenne Mandriva.
Nel frattempo Red Hat si dedicava sempre più allo sviluppo di applicazioni server e per il mondo imprenditoriale; la diffusione della distribuzione Linux Red Hat per il più vasto pubblico, dal 2003, passò al progetto Fedora.
Nel 2004 nacque, ad opera del miliardario sudafricano Mark Shuttleworth, il progetto Ubuntu con lo scopo di portare la distribuzione Debian dappertutto ed alla portata di tutti, arricchendola sempre più, rendendola sempre più facile da usare e, soprattutto, facendo in modo che chiunque possa utilizzare sistema operativo e quanto più software possibile con interfacce nella propria lingua.
Nel 2006, nonostante Ubuntu già dimostrasse di essere su una buona strada per mantenere fede a questi suoi propositi, nacque un progetto, Linux Mint, che, basandosi su Ubuntu, voleva creare distribuzioni ancora più belle, ricche e facili da usare.
Infatti, accanto alla necessità che il kernel e il sistema operativo Linux diventasse utilizzabile nel mondo imprenditoriale, sui server e in strutture dotate della capacità di progettare il software applicativo da dare in pasto al sistema operativo – obiettivo raggiunto in pieno in pochi anni – c’è sempre stato il forte desiderio delle comunità che si dedicavano ai citati progetti Debian, Fedora, Ubuntu che il nuovo sistema operativo si diffondesse anche tra il pubblico, questa volta non solo come sistema operativo ma come pacchetto contenente, insieme al sistema operativo, alcuni programmi applicativi, almeno quelli di uso più ricorrente (word processor, foglio di calcolo, browser web, riproduttori multimediali, ecc.): ciò che si chiama distribuzione o meglio, per gli affezionati, distro.
Le prime distro che si diffusero, SuSE e Debian, erano costituite da una raccolta di CD, il primo dei quali conteneva il sistema operativo e il software di più ricorrente uso; gli altri programmi si trovavano, all’occorrenza, sugli altri CD e si potevano caricare sul computer con semplicissime procedure e, soprattutto, con la certezza che funzionassero.
Ai CD, subentrata la possibilità di scaricare dati da Internet con velocità sempre crescenti, si sono sostituiti i così detti repository, magazzini digitali di software raggiungibili dal sistema operativo attraverso la rete e lo stesso sistema operativo si scarica ormai dai siti in rete dei distributori.
I sistemi di gestione dei pacchetti di programmi inclusi nelle distribuzioni sono due: apt (advanced packaging tool) della Debian e derivati Ubuntu e Mint e rpm (redhat package manager) della Red Hat e derivate Mandriva e Fedora, adottato anche da SuSE. Questi sistemi di gestione consentono il caricamento dei programmi applicativi sul computer in modo facilissimo, occupandosi di caricare anche tutte le librerie per farli funzionare (come si suol dire, sistemando le dipendenze). Caricato il sistema operativo, troviamo sul computer un gestore dei programmi, variamente battezzato, che ci elenca, suddivisi per categorie, tutti i programmi disponibili nel repository della distribuzione con la possibilità, essendo collegati a Internet, di caricarli sul computer con un semplice click.
A questo punto, chi dice che Linux è un sistema difficile da usare e non adatto a principianti, non sa veramente di cosa parla.
Come sicuramente non è aggiornato chi crea ansia sul fatto che le varie distribuzioni Linux non funzionino su tutti i computer o non riconoscano certe periferiche (stampanti, scanner, ecc.): il così detto problema dei driver. Può darsi che a inizio secolo qualche problema si sia verificato, ma ormai, se ci riferiamo a prodotti di marca e di ampia diffusione, anche questo timore non ha fondamento alcuno. Certo che, di fronte a un prodotto di nicchia, potremmo incontrare difficoltà. Sono comunque facilmente verificabili in rete le compatibilità.
In sostanza, rendiamoci conto che Linux non è più un fatto pionieristico: basti pensare che i due terzi dei server nel mondo sono equipaggiati Linux.
La diffusione stenta ad affermarsi negli usi domestici o delle piccole aziende, anche perché, quando acquistiamo un computer per questi usi, ce lo ritroviamo già equipaggiato Windows: alla faccia della lotta alle posizioni dominanti.

Per chi voglia assaggiare la variante Linux vorrei dare qualche indicazione, rammentando che tutti i sistemi Linux sono installabili anche a fianco di altri sistemi già presenti sul computer: all’accensione comparirà un menu da cui scegliere il sistema da avviare.
Nel formulare le mie indicazioni mi limito alle distribuzioni più affidabili che fanno capo alle strutture e ai progetti che ho citato prima e che hanno fatto la storia di Linux. Si tratta, infatti, delle distribuzioni che creano nessuno o meno problemi all’utente inesperto, sia in fase di installazione sia in fase di utilizzo, e le elencherò proprio in quest’ordine.
Ovviamente prescindo dalle distribuzioni a pagamento destinate al mondo produttivo, come Red Hat Enterprise Linux e Suse Linux Enterprise, o destinate ai server: a pagamento si fa per dire, nel raffronto con quanto sono a pagamento le analoghe e meno affidabili soluzioni proposte da Microsoft (Ubuntu server è comunque gratuito e si paga solo se si stipula un contratto di assistenza).
Altra avvertenza preliminare: Debian e Ubuntu fanno dei rilasci a distanza ravvicinata, Ubuntu puntualmente ogni sei mesi e Debian, con i suoi rilasci testing o unstable, con meno regolarità ma con cadenza simile. Si tratta di rilasci destinati a migliorare, a correggere imperfezioni delle versioni precedenti, ad includere sempre nuovi driver e sempre nuove librerie al servizio dell’evoluzione dell’hardware e del software. Tutta roba da addetti ai lavori e che è meglio l’utente normale lasci agli addetti ai lavori, preferendo le versioni stabili che vediamo subito.

Per vivere tranquilli e godersi un Linux senza problemi la distro che mi sento di suggerire per prima è Linux Mint. Come ho già detto, Linux Mint è una riproposizione di Ubuntu, con un repository dei programmi integrato con quello di Ubuntu, in versione di estrema facilità di uso e con una cura dei particolari di rifinitura al limite del perfezionismo. Le sue distro vengono diffuse ogni due anni, all’epoca maggio/giugno, un paio di mesi dopo l’uscita delle Ubuntu LTS su cui si basano e sono contraddistinte da un numero cardinale: l’ultima versione uscita porta il numero 18 e la sua prima edizione, Linux Mint 18 nominata Sarah, uscita nel 2016, l’ho presentata nel mio articolo “Benvenuta Sarah” su questo blog nel luglio del 2016 con allegato un manualetto per l’installazione. Queste versioni sono supportate con aggiornamenti per 5 anni: la 18 lo sarà fino al 2021. Nel periodo di supporto, per chi volesse procurarsi per la prima volta la versione più aggiornata, vengono rese disponibili sotto-versioni: nel gennaio 2017, per esempio, è uscita la versione 18.1, che sarà sempre supportata fino al 2021. Solo nel 2018 uscirà la versione 19, che sarà supportata fino al 2023. Il sito su cui troviamo Linux Mint è https://www.linuxmint.com/, dove, purtroppo in inglese, troviamo descritte le varie versioni grafiche disponibili e possiamo scaricare quella che più ci piace.
Con alcuni piccoli e superabilissimi inconvenienti che possono sorgere nel dopo installazione per sistemare i pacchetti linguistici o alcuni driver, metterei al secondo posto la ricchezza che ci offre Ubuntu. Sul sito http://www.ubuntu-it.org/ troviamo, in bella lingua italiana, una completa presentazione di Ubuntu con tutte le sue derivate, tra le quali possiamo trovare quella che più incontra i nostri gusti, le nostre necessità di lavoro o le caratteristiche del nostro computer: se ci interessa soprattutto la multimedialità probabilmente ci conviene installare Ubuntu studio, se siamo insegnanti probabilmente Edubuntu è quello che fa per noi, se abbiamo un computer vecchiotto e un po’ debole di RAM possiamo scegliere Lubuntu con la sua leggerissima interfaccia grafica, ecc: troviamo tutto ben descritto sul sito. Se scarichiamo la versione standard possiamo scegliere tra l’ultima versione LTS (la Long Term Support, con supporto di 5 anni, che consiglio a chi vuole eliminare ogni possibile problema) o l’ultima intermedia semestrale (quella che, come ho detto prima, lascerei ai più esperti). Quanto alle versioni specializzate, tipo Edubuntu, Ubuntu studio, ecc. teniamo presente che non costa nulla caricare sullo stesso computer più sistemi operativi: possiamo benissimo avere Xubuntu per scrivere e fare di conto e Ubuntu studio per fare musica.
Mint e Ubuntu hanno il pregio di offrirci ottimi gestori di programmi attraverso i quali possiamo arricchire senza alcuna difficoltà di ricerca e di caricamento il nostro computer. Gli aggiornamenti vengono proposti indicandone il tipo e il grado di rischio, in modo che è lasciata a noi la scelta se farli o meno.
Altra distro di tutto rispetto, solo forse un po’ più difficile da installare e manutenere, è quella che ci viene offerta da S.u.S.E. con il nome openSUSE. La versione corrente è la 13.2 e si può scaricare dal seguente indirizzo https://it.opensuse.org/Portal:Distribuzione. Al momento dell’installazione si sceglie l’interfaccia grafica del desktop tra le alternative KDE, Gnome e Compiz. Una descrizione di queste alternative si trova all’indirizzo https://it.opensuse.org/Interfaccia_grafica_utente. Rispetto a Ubuntu, open SUSE ha un magazzino di programmi meno organizzato e l’installazione degli aggiornamenti, proposti in maniera indiscriminata, può creare problemi dalle conseguenze catastrofiche.
Non per difetti di funzionamento, che è ottimo, ma semplicemente per la maggiore difficoltà a reperire e caricare i programmi, dopo quanto elencato metterei Fedora. Il suo sito è https://getfedora.org/it/. Il sistema che ci viene offerto in prima istanza da Fedora è quello denominato Workstation, ma secondo i miei gusti è graficamente il peggiore tra tutti quelli che possiamo avere. Ve ne sono altri 6, ben descritti nella zona centrale della pagina web del sito, sotto il titolo “Vorresti ulteriori opzioni per Fedora?”. La versione corrente, variamente vestita come grafica, è la 25.
Riandando a coloro che hanno fatto la storia di Linux, dopo la crisi finanziaria che ha decretato la chiusura di Mandriva nel 2015, mi piace segnalare che sulle ceneri di Mandriva è nata openMandriva il cui sito web è https://www.openmandriva.org/?lang=en. Recentemente è stata rilasciata la distro LX3, graficamente impostata su KDE, che mi pare non abbia nulla da invidiare a quelle fin qui citate. La sua installazione penso sia la più facile del mondo Linux ma, purtroppo, non altrettanto avviene per alcune configurazioni che arrivano ad impiantare il computer.
Con estremo disagio, perché non se lo meriterebbe per la sua importanza storica, metto all’ultimo posto Debian, che troviamo sul sito https://www.debian.org/index.it.html. La versione stable corrente è la 8. I difetti di Debian – che se si riesce a installare è ottimo sotto tutti gli aspetti – stanno nella difficoltà di installazione, che spesso naufraga impiantando il computer, e in problemi ricorrenti con alcuni driver. Non dimentichiamo, comunque, che grazie a Debian abbiamo Mint e Ubuntu.
Tutte le distro che ho elencato possono essere scaricare in versione “live”. Queste versioni, masterizzate su DVD o inserite su chiavetta USB avviabile, ci offrono la possibilità di essere provate senza essere installate sul disco rigido del computer, in modo che l’installazione possiamo farla dopo aver verificato che il prodotto sia di nostro gradimento e, soprattutto, che funzioni sul computer su cui vorremmo installarlo (quanto a scheda grafica, audio, rete ethernet, wifi, ecc.). Teniamo presente che, con la sola eccezione di openMandriva, che si può italianizzare già in prova, queste prove dovremo farle con il layout di tastiera americana e con le interfacce delle applicazioni in lingua inglese. Infine sappiamo che, a causa della migrazione da BIOS a UEFI con i problemi che ho trattato nel mio articolo dello scorso mese, se vogliamo utilizzare versioni live degli ultimi rilasci delle distro è bene che ci serviamo del DVD. Chi usa Windows dotato del programmino Rufus ha il vantaggio di poter generare chiavette USB live utilizzabili sia con il BIOS sia con UEFI.
In questa carrellata non ho citato Arch Linux. Non è stata una dimenticanza e, per chi voglia un Linux fai-da-te, cito l’indirizzo https://wiki.archlinux.org/index.php/Arch_Linux_(Italiano), dove si può vedere di che cosa si tratta e si può scaricare ciò che serve per installarlo. Alla prima installazione abbiamo qualche cosa di minimale, senza nemmeno interfaccia grafica, e possiamo poi installare ciò che ci serve costruendo un sistema operativo come ci piace. Ovviamente non è roba da principianti.
Buon Linux!